Il tempo del coronavirus 2
- Bruno Marchi
- 14 mar 2020
- Tempo di lettura: 2 min
In epoca di guerra, lo abbiamo appreso dai libri di storia e dalla letteratura, gradualmente ci si adatta ad un nuovo stile di vita per cui dopo qualche tempo, soprattutto necessario a superare l’impatto emotivo, la vita stessa ricomincia a scorrere lungo un nuovo letto come se fosse un fiume al quale la strada conosciuta è sbarrata da una diga occasionale e per questo trova nuove vie. Qualcosa di simile sta accadendo per il Covid-19. Ma questo diverso percorso, purtroppo, lascia morti e feriti alle spalle, non solo tra i contagiati. L’organizzazione psichica di ognuno, non solo l’organizzazione sociale, è messa a dura prova dal trauma collettivo che stiamo vivendo in questo drammatico frangente sanitario nel corso del quale stanno emergendo le fragilità ma anche la forza di molti. È come se quanto stiamo vivendo procurasse un precipitato al cui interno, setacciandolo, fosse possibile rintracciare il peggio ed il meglio di noi esseri sociali, dunque politici, e di noi esseri individuati cioè persone che vivono la loro vita di relazione ma che, contemporaneamente, sono capaci di vivere da sole. Per dirla con Winnicott: la capacità di stare da soli in mezzo agli altri. Purtroppo, questa opportunità evolutiva non sempre si realizza lungo l’arco di sviluppo e, pertanto, per svariati motivi si può rimanere patologicamente dipendenti dagli altri per tutta la vita. Con tutta evidenza la fragilità emotiva di molti mette in luce l’angoscia di morte la quale, pur essendo fisiologica, nell’attuale momento storico é esorcizzata, occultata e negata, ancor di più del solito, da numeri e statistiche o da massicce negazioni. La fragilità determina, in questa fase di estremo stress, comportamenti che non ci aspettavamo da chi conosciamo, o credevamo di conoscere, i quali ad un certo punto, e sta già succedendo, crollano e possono manifestare tratti di incosciente fuga dalle responsabilità che è cosa ben diversa dalla paura poiché essa ci aiuta a proteggerci. È il caso di quanti dal Nord stanno scendendo al Sud, per esempio, o anche di quanti, comunque non molti, fuggono dalla responsabilità di continuare a fornire un servizio essenziale a chi è nel bisogno approfittando di pieghe e risvolti contrattuali per tirarsene fuori, riducendosi così a tremebondi personaggi manzoniani. Ma a questi non si può chiedere di più, fanno quel che possono. Il problema è che, frequentemente, il loro comportamento mette a disagio e rischio gli altri. In compenso c’è chi con abnegazione, pur accompagnato dalla paura, continua nel suo lavoro, non se ne torna a Sud dalla mamma (che poi c’è da chiedersi: che vita conducono al Nord se non sono riusciti a stabilizzarsi in un’autonomia e svincolo dalle parentele?); c’è chi, assicurando la continuità del servizio che innanzitutto sente essere etico, fa doppi e tripli turni negli ospedali, nelle comunità, sulla strada (forze dell’ordine, operatori ecologici, vigili del fuoco, volontari ecc.) non solo perché ciò che stiamo vivendo ha carattere di assoluta eccezionalità e richiede ad ognuno di fare la propria parte ma soprattutto perché sente viva l’appartenenza ad una comunità fatta di donne e uomini, pietre angolari per la costruzione di una diversa sensibilità verso le sorti del pianeta e dell’umanità. Donne e uomini che non hanno perso la bussola dell’essere umani.

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